Le funzioni vitali dei due grandi malati dello stato sociale italiano, istruzione e sanità, alla vigilia della nuova legge finanziaria (Legge di Bilancio), appaiono, ad uno sguardo ottimistico, stabilmente negative e le misure previste dal Governo sembrano insufficienti a farle uscire dalla loro prolungata condizione di coma vigile.
Sul crollo verticale del diritto alla salute, le esperienze quotidiane della maggior parte dei cittadini, in modo più immediato di qualsiasi statistica, mostrano che la salute stia diventando un privilegio dei ricchi.
Sulla scuola, che maggiormente ci interessa in questa riflessione, dovremmo compiere lo sforzo di leggere la realtà al netto di ogni pur legittimo tentativo partigiano di edulcorare la gravità della situazione, condotto, da questa come da precedenti maggioranze governative, con gli strumenti propagandistici di effimeri bonus e con quelli retorici di vuote dichiarazioni di valore.
Questi strumenti sono spesso usati, con discutibile efficacia, per mitridatizzare la sensibilità degli addetti ai lavori e dell’opinione pubblica e tuttavia, ad una analisi oggettiva fondata sul fact checking, lasciano sul campo un dato oggettivo fondamentale: il crollo della spesa pubblica sulla scuola.
Al paziente, insomma, salvo il gesto, tanto ostentato quanto vacuo, di una pezza fresca sulla fronte, non viene applicata da anni alcuna terapia.
Pochi investimenti. L’Italia, con una percentuale del 4% del PIL destinato alla pubblica istruzione, secondo i dati OCSE è collocata in coda alla classifica dei paesi occidentali. Impietoso il confronto, oltre che con gli inarrivabili paesi del Nord Europa (6,5%), anche con la Francia e la Germania (5,5%), nonché con gli USA (5%, percentuale ora minacciata dai programmi elettorali del neoeletto Trump).
Il collocamento dell’Italia in questa posizione di retroguardia risale principalmente alla seconda decade di questo secolo, dal momento che, fino ai primi anni 2000, il nostro Paese si trovava alla pari con i suoi principali partner europei.
Retribuzione dei docenti. Gli insegnanti italiani, come noto, sono tra i meno pagati nel mondo occidentale. Nella maggior parte degli altri paesi europei, i docenti hanno stipendi competitivi, superiori ai nostri nella misura media di circa 10.000 € all’anno e accompagnati da benefit significativi, come orari flessibili e ampio supporto professionale. In questi paesi il rispetto per la professione è alto e, in generale, le politiche scolastiche sono caratterizzate da un forte sostegno economico e da una visione di lungo periodo incentrata sull’importanza dell’istruzione per lo sviluppo sociale ed economico.
La giusta terapia. In un recente saggio, intitolato Crisi, come rinascono le nazioni, Jared Diamond spiega, tra le altre cose, come l’investimento sulla scuola sia stato al centro dei percorsi di resilienza e rinascita intrapresi, in momenti delicati della loro storia, da paesi per molti versi eterogenei come la Finlandia e il Giappone. Le loro politiche forniscono un esempio di quanto sia vero il principio, successivamente enunciato da Nelson Mandela, che «l’istruzione è l’arma più potente per cambiare il mondo» e, soprattutto, quanto sia vero l’ancor più pragmatico principio, enunciato secoli prima dal filosofo inglese Francis Bacon che scientia potentia est (sapere è potere).
Per contrasto, pare legittimo ipotizzare che il disinvestimento sulla scuola, cui la classe politica italiana ha imprigionato il nostro Paese da decenni, sia il modo migliore per restare nei guai e peggiorarli col tempo.
Gianfranco Meloni
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