Come volevasi dimostrare. Il confronto, al momento solo tecnico, sulla c.d. “flessibilità in uscita”, avviato tra tecnici di Palazzo Chigi e del Ministero del Lavoro e Parti sociali, ha consentito di conoscere finalmente gli orientamenti maturati in materia dalla Parte Pubblica.
Che sono poi, in buona sostanza, quelli che avevamo preannunciato in un nostro precedente notiziario, e che temevamo: una disponibilità di massima a prevedere una uscita anticipata dal lavoro rispetto alle due opzioni previste dalla riforma Fornero del 2011 (pensione di vecchiaia a 67 anni d’età e pensione anticipata con 42 anni – 41 per le donne – e 10 mesi di anzianità contributiva), ma a condizione di prevedere o un ricalcolo contributo sull’intero montante sul tipo di “opzione donna” (30% circa di penalizzazione) o, in subordine, una penalizzazione dell’assegno pensionistico (si è ipotizzato una uscita a 64 anni, con un taglio del 3% per ogni anno d’anticipo rispetto ai 67).
Una generica disponibilità è poi venuta della Parte Pubblica, nell’ipotesi di una uscita anticipata a 64 anni anche di chi è nel sistema misto, a ragionare su una possibile riduzione della soglia di accesso alla pensione (oggi, il trattamento minimo per i c.d. “contributivi” è pari a 2,8 volte l’assegno sociale). Totalmente bocciata, invece, dalla Parte Pubblica, l’ipotesi di uscita anticipata senza penalizzazioni con 41 anni di servizio, che è invece l’opzione della FLP prioritariamente sollecitata, e che è stata respinta sulla base di un supposto, insostenibile impatto sui conti pubblici, che francamente non ci convince proprio, tenuto conto che il sistema previdenziale “è ad oggi sostenibile e lo sarà anche tra 15 anni”, come si legge nel 9° rapporto del Centro Studi “Itinerari previdenziali” presentato il 15 febbraio scorso al Senato, e tenuto anche conto dei risparmi sulla spesa pensionistica “prodotti” dal Covid-19 nei prossimi 10 anni (quasi 12 mld €). La verità è che il Governo è fermo alla Fornero, e non si muove da lì. Vedremo a breve, comunque, gli sviluppi del confronto tecnico cui dovrebbe seguire quello politico, e capiremo quale direzione si intende imboccare.
Prima di concludere, due informazioni. La prima, è che il cedolino di pensione di marzo registrerà degli aumenti, dovuti per una piccola parte al saldo (0,1% in più) rispetto al tasso di rivalutazione delle pensioni già attribuito da gennaio (1,6%) e questo in ragione della crescita nel 2021 del tasso di inflazione (ulteriori aumenti ci saranno nel 2023, quando INPS applicherà il tasso definitivo di rivalutazione 2022 – 1,9% – con i relativi arretrati), e per la restante, e molto più consistente, parte all’applicazione da parte INPS delle nuove aliquote IRPEF e detrazioni previste dall’ultima Legge di Bilancio (art.1,co.2, L. 234/2021). La seconda informazione è relativa alla circolare n. 28 emanata da INPS il 18 febbraio scorso, che ricorda regole e requisiti per l’accesso alla pensione nel prossimo biennio 2023-24 (pensione di vecchiaia, pensione anticipata, pensione di anzianità con il sistema delle c.d. “quote”, adeguati agli incrementi dell’aspettativa di vita, che però non hanno subito incrementi, come da decreto MEF 27.10.2021).
Giancarlo Pittelli
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