Far partire la nostra disamina dal 1989 significa considerare poco più dell’ultimo trentennio della nostra storia.
E’ un arco temporale non particolarmente esteso, ma fondamentale per comprendere le trasformazioni della società italiana e non solo.
In generale il sistema scolastico di un paese non è qualcosa di autonomo, che va per proprio conto, ma è sempre finalizzato al tipo di società che si vuole realizzare.
La società italiana è cambiata, in meglio od in peggio secondo la valutazione di ciascuno, e con essa anche la scuola.
Perchè partiamo dal 1989?
Il 1989 è l’anno della caduta del Muro di Berlino e tutto da allora in Europa ha subito una brusca accelerazione. In realtà i prodromi di quanto sarebbe avvenuto si ritrovano chiaramente nel decennio precedente. Protagonisti gli USA che avevano portato avanti la creazione di un proprio impero mondiale dal 1944, fondato sul dollaro, con gli accordi di Bretton Wood.
Non si erano limitati, secondo la dottrina Monroe, all’America Latina, il giardino di casa loro, ma erano intervenuti in Asia, in Indocina, in Medio Oriente, in Africa. Le giustificazioni addotte erano sempre queste: la difesa della democrazia e la lotta al comunismo.
I metodi impiegati furono variegati, ma quasi sempre brutali. Le vere finalità perseguite sempre le stesse: aprire alle imprese americane nuovi mercati, abbattere qualsiasi barriera doganale a tutela della produzione locale ed ottenere materie prime a basso costo, senza alcun riguardo per le popolazioni coinvolte e per l’ambiente devastato.
In generale, per portare la democrazia si sganciavano di dieci tonnellate di bombe per acro, ma se la popolazione locale aveva bisogno di tanta democrazia si ricorreva al napalm e come estrema ratio, per i più ostinati, all’agente arancio.
Questo modo di procedere, creazione dell’impero anglosionista, con riferimento all’origine dei capitali coinvolti, venne chiamato globalizzazione.
Non ci dilunghiamo oltre, poiché ci sarebbe tantissimo da dire in merito, ma per completezza dobbiamo ancora aggiungere qualcosa.
Della globalizzazione si parla e straparla come se fosse qualcosa di recente, come una naturale evoluzione del capitalismo. Invece no. Dietro alla globalizzazione, come detto, c’è un preciso progetto politico. Anche nel passato ci sono state altre globalizzazioni.
Un esempio su tutti: la scoperta delle Americhe. Questa determinò il tramonto della Repubblica di Venezia ed una retrocessione dal punto di vista economico del bacino del Mediterraneo. Per contro portò in auge nazioni come la Spagna, la Francia, l’Inghilterra, l’Olanda, che realizzarono possedimenti e colonie nel nuovo continente. Tali nazioni operavano su scala globale.
In ogni caso le finalità della nuova e delle vecchie globalizzazioni sono quelle di sempre: predatorie, volte all’accaparramento di nuovi mercati e di materie prime per sostenere una crescita economica indefinita ed infinita, che viene spacciata per scienza e progresso, ma tale non è.
Per contro, c’è anche una grande differenza tra la nuova e le vecchie globalizzazioni: mentre prima si spostavano gli uomini lì dove c’erano le risorse, oggi sono i capitali che si spostano.
Prendiamo ad esempio la costituzione degli Stati Uniti. Arrivarono prima gli europei che sterminarono gli autoctoni, appropriandosi delle loro terre e delle loro ricchezze naturali, successivamente con la tratta degli schiavi si trasferirono, coattivamente, le risorse umane necessarie all’estrazione di quelle stesse ricchezze ed alla creazione di nuovo capitale.
Riflessione a margine: gli Stati Uniti d’America, la “nazione indispensabile” secondo alcuni, sono nati dal furto delle terre indiane e dal furto dei figli d’Africa.
Mutatis mutandis, lo stesso schema si è seguito per la colonizzazione dell’Australia. Gli aborigeni australiani hanno subito la medesima sorte dei nativi americani, con la differenza che la mano d’opera gratuita fu fornita dai galeotti inglesi colà deportati.
Ribadiamo che solo nelle modalità operative la nuova globalizzazione è diversa.
Grazie alla finanziarizzazione della produzione, sono i capitali e non più gli uomini che si spostano e vanno dove trovano le migliori condizioni di investimento, rectius di sfruttamento.
Ma quali sono le condizioni ottimali per il capitale globalizzato? Un governo autoritario facilmente controllabile, sindacati deboli o inesistenti, stipendi bassi ai limiti della sussistenza, assenze di barriere doganali, imposizione fiscale del tutto assente o quasi.
Altro aspetto importante della nuova globalizzazione è la creazione di organismi internazionali, quasi sempre con sede negli Stati Uniti, che sono sganciati dal diritto dei singoli paesi aderenti, come il WTO e che assumono la funzione di giudice ultimo nelle controversie commerciali.
Chiudiamo questa parentesi quanto mai estesa ma assolutamente necessaria, per la contestualizzazione di quanto diremo nel prosieguo.
Nel secondo dopo guerra i paesi europei, vincitori e vinti, erano stati trattati sempre con un certo riguardo dagli Stati Uniti.
I paesi del Patto di Varsavia confinavano per la maggior parte con quelli aderenti alla NATO e le divisioni corazzate russe facevano ancora tanta paura.
Per questo motivo, per allontanare le sirene del comunismo, nell’Europa occidentale si era costruito un esteso stato sociale. L’Italia, poi, aveva delle sue peculiarità: il più grande partito comunista occidentale e la più grande concentrazione di aziende statali.
Le lobbies economiche italiane e non solo, pur di allontanare le sirene del comunismo, avevano dovuto accettare la creazione di un importante stato sociale e di uno Stato interventista sui mercati, onde garantire la piena occupazione. Ma lo avevano fatto obtorto collo.
Einaudi ed i suoi seguaci liberisti, sconfitti nella Costituente e nella stesura della Carta Costituzionale, che prevedeva diritti sociali ed uno stato interventista sui mercati, aspettavano nell’ombra la propria occasione di rivincita.
L’occasione venne nel 1989 con la riunificazione della Germania.
L’URSS ed i suoi carri armati non facevano più paura. In Europa le consorterie globaliste e neoliberiste determinarono la creazione della U.E.
L’Unione europea nasceva così dall’esigenza reale, anche se non rinvenibile esplicitamente in alcun trattato ufficiale, di impedire una possibile futura guerra tra la Germania riunificata e la Francia.
Nel contempo si dovevano far arretrare le dottrine keynesiane e lo stato sociale, per cui l’impianto ideologico fu preso da Milton Friedman, teorico del neoliberismo dell’Università di Cicago.
Spacciata come la realizzazione del progetto dei federalisti europei, l’U.E. non ha niente in comune con il progetto nè dei federalisti europei in generale, nè di quelli italiani in particolare, che facevano capo ad Altiero Spinelli.
Essa aveva tutt’altra finalità: ingabbiare i popoli europei con regole economiche cogenti, i così detti vincoli esterni, basate sull’austerità, onde smantellare le tutele sociali e relegare i governi eletti nel ruolo di ratificatori di decisioni prese altrove.
Per agganciare la Germania all’Europa bisognava adottare il modello di sviluppo della Germania Ovest, basato su di una moneta forte, su di una bassa inflazione e sul contenimento degli aumenti salariali. Una politica questa deflazionistica e mercantilista.
Come far accettare tutto ciò all’Italia? Infatti l’Italia aveva un modello di sviluppo del tutto opposto, basato sulla ricerca della massima occupazione, anche ricorrendo alla monetizzazione del debito.
Come far cadere in trappola i cittadini elettori?
Ci pensò un pool di giudici milanesi, denominati dalla stampa dell’epoca “ Mani pulite”.
Avviando una inchiesta sul finanziamento illecito dei partiti, “Mani Pulite” fu il braccio operativo dei fautori del progetto di adesione all’U.E.
In un amen, Di Pietro & C. eliminò tutta la classe politica della Prima Repubblica che, nonostante i suoi limiti, aveva fatto diventare l’Italia la quarta potenza economica mondiale. Ma fecero ancora di più. Diffusero nella popolazione l’opinione, esistente ancora oggi, che la politica fosse un’attività in cui ci si sporca necessariamente le mani e che la corretta gestione è solamente un fatto tecnico. Da quel momento in poi la politica è stata relegata in un cantuccio, le scelte tra le varie opzioni economiche sono state solamente un fatto tecnico, come se non ci fossero interessi di parte, l’Italia non ha avuto più una propria politica estera.
Si è potuto così procedere alla svendita dell’immenso patrimonio dell’IRI, pari per grandezza a quello della DDR, ad opera di Romano Prodi, per cercare di ridurre il debito pubblico, generato proprio da quelle scelte liberiste fatte per “entrare in Europa” e non certo da ladrocini o malversazioni, come andavano dicendo i sostenitori della seconda repubblica.
Mentre avvenivano siffatti rivolgimenti, la scuola italiana cominciava a cambiare.
All’inizio era stata interessata dai provvedimenti più generali adottati per tutta la pubblica amministrazione, come ad esempio la privatizzazione del rapporto di lavoro.
Infatti con la legge delega n. 421 del 1992, voluta dal Governo Amato, altro alfiere dell’europeismo assieme al già citato Romano Prodi, si era posto l’obiettivo di adeguare l’attività amministrativa pubblica agli standard europei qualitativi e quantitativi (non precisati in alcuna parte) e di contenere la spesa pubblica.
E’ di sesquipedale evidenza che tale impostazione mal si adatta alla scuola statale italiana, che non produce caciocavalli, ma che deve istruire giovani e giovanetti.
Pur tuttavia, si procedeva ad una aziendalizzazione della scuola con la concessione dell’autonomia scolastica nel 1997 e la creazione della dirigenza scolastica nel 1998.
Ai dirigenti scolastici spetta la gestione finanziaria, tecnica ed amministrativa, compresa l’adozione di tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, mediante autonomi poteri di spesa, spetta l’organizzazione delle risorse umane e strumentali attribuendo conseguentemente alla dirigenza la responsabilità relativa al conseguimento dei risultati di efficienza e di efficacia della gestione, che le viene affidata.
Si controllano 7400 dirigenti scolastici affinché a loro volta controllino i 700.000 docenti italiani. Ma quis custodiet custodes?
Gli istituti scolastici sono diventati così tante grottesche piccole aziende, in competizione tra di loro per accaparrarsi il discente-cliente e le relative famiglie, grazie a ricchi premi e cotillons contenuti nei Piani dell’offerta formativa dei singoli istituti.
Questo sono i primi grandi effetti visibili prodotti dalla globalizzazione sulla scuola italiana: aziendalizzazione e privatizzazione del rapporto di lavoro.
Ma non basta. Sulla scuola si è abbattuta una congerie di riforme, rectius controriforme, finalizzate a fare cassa e nel contempo a svuotarla di risorse e contenuti: riforma Berlinguer, riforma Moratti, riforma Fioroni, riforma Gelmini, riforma Renzi… Il tutto in un periodo di circa 15 anni, cosa mica da ridere!
Infatti anche l’U.E dopo il 2000 cominciò ad interessarsi di scuola. Solo per citare alcuni dei provvedimenti più recenti ricordiamo le Raccomandazioni del Parlamento europeo e del Consiglio d’Europa del 18/12/2006 sulle competenze chiave e l’Agenda di Lisbona del 2007.
Alla fine, di tutta questa furia riformatrice cosa resta? Della scuola, quella con la S maiuscola ben poca cosa.
Cominciamo dagli scomparsi. Scompare l’insegnamento del diritto ed è fortemente depotenziato l’insegnamento delle discipline economiche.
A conferma di quanto diciamo, dei 33.000 posti che si assegneranno con il prossimo concorso per la scuola secondaria, solo 51 sono per le Scienze giuridiche ed economiche e solo 326 per le Scienze economiche ed aziendali. A livello percentuale parliamo rispettivamente dell’1,5 per mille e del 9,8 per mille sul totale. Praticamente niente.
La scelta di ridurre l’insegnamento di tali discipline fu operata dall’allora Ministro Gelmini, avvocato, la quale così ebbe a dichiarare: “Riguardo ad economia e diritto, dovendo fare delle scelte, no, non ritengo siano materie fondamentali per l’educazione alla cittadinanza e alla legalità”. Detto da un avvocato era proprio degno di nota!
Credo che le motivazioni recondite di queste scelleratezze siano altre e di assoluta evidenza. Conoscere il diritto significa conoscere anche la Costituzione e quindi i propri diritti. Ma questa conoscenza, secondo le lobbies economiche europee è da evitare. Vuoi vedere che i giovanetti si accorgono che il Titolo III della Costituzione è completamente disapplicato dagli accordi europei sottoscritti nel tempo dai Governi italiani?
Anche l’economia deve essere sconosciuta ai più.
Solo così sedicenti esperti, sacerdoti del pensiero mainstream, possono pontificare ogni sera alle plebi ignoranti, dai vari canali televisivi, facendo impunemente confusione tra inflazione e svalutazione ed evocare terribili punizioni bibliche sul popolo italiano se non si seguono le imposizioni della C.E. in maniera pedissequa.
Ma non basta.
L’U.E., avendo l’ambizione di costruire l’homo novus europeus, deve nel contempo depotenziare le discipline identitarie. Quali sono le discipline più identitarie per antonomasia? La storia e la geografia.
Ecco che nel biennio dei licei è stata introdotta la geo-storia, affinché i discenti non sappiano nulla di geografia ed ancor meno di storia.
Traiamo le conclusioni.
Una scuola che funziona, che istruisce, produce liberi pensatori , spiriti liberi e quindi offre alla società la possibilità di avere un domani una nuova classe dirigente, che sia alternativa a quella attuale, preda del pensiero maistream e dalle coscienze occupate.
Una scuola che non funziona, che non trasferisce più conoscenze e saperi, orientata solamente alle competenze trasversali ( Raccomandazione del Consiglio Europeo 22 maggio 2018), alla formazione dell’homo oeconomicus e non del polites che deve esercitare la parresia, non può assolutamente creare la nuova classe dirigente di cui l’Italia ha disperatamente bisogno.
Raffaele SALOMONE-MEGNA
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