
Il ministro della Pubblica amministrazione: «Il concorso non basta più. Sui contratti la posizione di Cgil e Uil non regge al confronto con i dati. Nel 2024 assunti 350mila lavoratori»
Paolo Zangrillo, ministro per la Pubblica amministrazione, con la sua riforma approvata in consiglio dei ministri, propone forti cambiamenti nel processo di selezione dei dirigenti e nel meccanismo di attribuzione dei premi di rendimento.
In particolare, se la riforma sarà approvata in Parlamento, il 30% dei posti da dirigente sarà accessibile non più per concorso ma con una procedura che passa per la valutazione del lavoro svolto dal funzionario o dal quadro che si candida alla promozione.
Perché questa strada sarebbe migliore del concorso?
«Con questo provvedimento affianco al concorso un percorso che consente di attribuire a chi ha la responsabilità della gestione delle persone di promuovere i meritevoli. Le procedure concorsuali misurano la capacità di apprendere, ma a questa non è automatico che faccia seguito il saper fare. Inoltre, oggi, un funzionario che aspiri a crescere, ha necessità di studiare e di passare un concorso, ma non tutti possono farlo, perché sono molto impegnati. E comunque lasciare tutto all’iniziativa del singolo deresponsabilizza i dirigenti, che non avvertono la necessità di adottare soluzioni per far crescere le persone. Invece, vogliamo un’organizzazione moderna che metta a disposizione percorsi per valorizzare i meriti maturati sul campo».
Quindi nel suo sistema ideale farebbe totalmente a meno dei concorsi?
«Assolutamente no. Il corso-concorso della scuola superiore della pubblica amministrazione è un percorso consolidato di accesso alla dirigenza che garantisce un livello di qualità elevato. I due sistemi possono coesistere».
Quali sono le garanzie che la promozione a dirigente avvenga rispettando il criterio costituzionale dell’imparzialità e non sia invece frutto di cooptazione in una cordata amica?
«Abbiamo costruito un percorso che garantisce un livello di trasparenza e imparzialità molto elevato. La procedura prevede l’osservazione delle performance del funzionario che si candida nei 5 anni precedenti. Inoltre, la valutazione della candidatura sarà fatta da una commissione composta da dirigenti generali estratti a sorte a cui si aggiungono due professionisti che possono venire anche dal privato e il presidente è esterno, a garanzia dell’imparzialità. Chi supera questo step si vedrà assegnato un incarico dirigenziale temporaneo. Poi ci sarà una nuova valutazione ed eventualmente un nuovo incarico temporaneo e solo alla fine, in caso di performance positiva, la promozione definitiva a dirigente. Insomma, un percorso lungo e sottoposto a continue verifiche: difficile immaginare che ci possa essere cooptazione. Anzi, credo che questo strumento sia più severo e selettivo della procedura concorsuale perché si valuta non solo quello che si sa ma anche la capacità di fare, di essere un vero dirigente».
Ma se la selezione dei candidati ammessi alla procedura è svolta dal dirigente dello stesso funzionario, non c’è il rischio di scelte fatte anche in base alla sintonia caratteriale o politica?
«No, stiamo parlando di un percorso controllato. Il dirigente redige una relazione sul funzionario, poi sarà la commissione a selezionare. Nella valutazione si tiene conto dei giudizi espressi sulle performance dei candidati nei cinque anni precedenti. Valutazioni che il disegno di legge prevede siano riformate, per giungere a una verifica effettiva dei risultati rispetto a obiettivi misurabili che devono essere assegnati nel primo trimestre dell’anno. Un cambiamento radicale rispetto ad ora, dove gli obiettivi e le verifiche sono meramente burocratiche, con la conseguenza che il 98% dei dipendenti riceve il voto massimo, come se fossero tutti delle eccellenze».
Ai voti sono legati anche i premi di risultato. La riforma prevede che il punteggio massimo possa essere dato al massimo al 30% del personale. Questo significa che gli altri prenderanno un premio più basso rispetto al passato. Come lo spiega ai sindacati?
«Sì, non si potrà attribuire la valutazione massima a più del 30% sia dei dirigenti che dei non dirigenti. Auspico che il sindacato apprezzi che con questa riforma vogliamo valorizzare il personale meritevole. Il tetto del 30% non è pretestuoso, ma fa riferimento al criterio adottato in tutti i Paesi dove i sistemi di valutazione funzionano».
Ministro, sta andando avanti il programma di svecchiamento della pa?
«Sì, con grande soddisfazione. La digitalizzazione dei concorsi ci ha consentito, nel 2023-24, di inserire 350mila lavoratori nel pubblico impiego e di questi il 48% ha meno di 40 anni. Nel 2021 l’età media dei dipendenti pubblici era arrivata a 51 anni e mezzo, ora siamo a 49. E questa riforma consente alla pubblica amministrazione di presentarsi in maniera più attrattiva ai giovani, che non si accontentano più solo della stabilità del lavoro, ma vogliono anche una prospettiva di crescita».
L’intelligenza artificiale applicata al pubblico impiego, in prospettiva, comporta il rischio di esuberi?
«Assolutamente no. Stiamo utilizzando l’intelligenza artificiale per affidare alle macchine attività ripetitive e di elaborazione di masse di dati spostando le persone su attività a più alto valore aggiunto».
L’Aran ha diffuso i dati sulle retribuzioni pubbliche. E lei ha criticato Cgil e Uil che non hanno firmato i rinnovi contrattuali perché gli aumenti previsti non consentirebbero, secondo loro, di recuperare il potere d’acquisto perso con l’inflazione. Il governo darà gli aumenti previsti anche senza la firma di Cgil e Uil?
«Questa è l’estrema ratio. Costringere il governo ad agire unilateralmente significherebbe creare un danno ai lavoratori, perché i contratti sono fatti anche di una parte normativa rilevante, non solo economica. Auspico quindi una ripresa del dialogo per arrivare a firma anche con Cgil e Uil. E contesto che l’ostacolo sia rappresentato dalla perdita del potere d’acquisto. Tra il 2016 e il 2027, l’ Ipca (parametro d’inflazione per l’aumento delle retribuzione, ndr.) aumenta di circa il 25% mentre gli stipendi tra il 20 e il 25%, certifica l’Aran su dati Istat e della Ragioneria generale. Nel 2018 Cgil e Uil firmarono contratti con aumenti del 3,4% a fronte di un calo del potere d’acquisto negli anni precedenti del 12%. Insomma, la loro mi pare una posizione più politica che di merito».