Alessandro Giuliani Lunedì, 04 Settembre 2017
Ai docenti non si chiede di studiare e di preparare lezioni. Si chiede di svolgere funzioni burocratiche che finiscono per assorbire gran parte del loro tempo e del loro entusiasmo.
Così ha scritto, con lucida sintesi, Nuccio Ordine un paio di giorni fa sulCorriere della Sera, ricordando che “le ore dedicate a riempire carte su carte potrebbero essere invece investite per leggere classici, per approfondire le proprie conoscenze e per cercare di insegnare con passione”.
Ordine ha quindi puntato l’indice su “decenni di devastanti tagli all’istruzione”, operati dai Governi. Bocciando, senza nominarle, anche le ultime riforme, da quella Berlusconi-Gelmini sino all’ultima Renzi-Giannini: “l’unico importante investimento economico (un miliardo di euro) degli ultimi anni è stato destinato alla cosiddetta «scuola digitale», con l’illusione che le nuove tecnologie possano garantire un salto di qualità”.
In effetti, anche chi non insegna dovrebbe saperlo, “a cosa serve un computer senza un buon docente?”. Perché, “la «buona scuola» non la fanno né le lavagne connesse, né i tablet su ogni banco, né un’organizzazione manageriale degli istituti e ancor meno leggi che rendano l’istruzione ancella del mercato: la «buona scuola» la fanno solo e soltanto i buoni professori”.
Ancora una volta, è dall’estero arrivano gli esempi da seguire: “Basterebbe leggere le dichiarazioni del Presidente Macron per capire l’orientamento della Francia: non più di 12 alunni per classe nelle aree considerate a rischio «economicamente» e «socialmente», proprio per dare, attraverso uno straordinario potenziamento dei docenti, più centralità al rapporto diretto con gli studenti”.
Quindi, “dai professori bisognerebbe partire. Che fare? Come formarli? Come selezionarli?”. Ordine non ha dubbi e si scaglia contro le politiche condotte nell’ultimo triennio, ma anche contro le esternazioni della ministra Valeria Fedeli delle ultime settimane: “La nostra scuola non ha bisogno di ulteriori riforme. Non ha bisogno dell’alternanza scuola-lavoro così come viene applicata (le ore non sarebbe meglio investirle in conoscenze di base?)”
E nemmeno della “riduzione di un anno della scuola secondaria (la fretta non aiuta a formare alunni migliori: la frutta maturata con ritmi veloci non ha lo stesso sapore di quella che cresce sull’albero)”.
Perché, continua l’editorialista del Corriere della Sera, “la migliore delle riforme con pessimi professori darà pessimi risultati. C’è bisogno di un sistema di reclutamento che possa garantire un percorso chiaro e sicuro: ogni anno, a prescindere dal colore dei governi, un concorso nazionale (come si fa in molti Paesi). E non l’alea dei concorsoni decennali e dei percorsi improvvisati che hanno prodotto infinite tipologie di precari”.
Ecco, quindi, la strada da seguire per mettere al centro il rapporto docente-allievo: sapere scegliere, con frequenza, “i buoni professori (eliminando completamente il precariato) e ridare dignità al lavoro di insegnante (anche sul piano economico, visto che gli stipendi italiani sono molto bassi rispetto alla media europea)”.
“In alcune scuole del nord e del sud, ogni giorno, questo miracolo già accade. Riposa sulle spalle di singoli insegnanti appassionati che dedicano, controcorrente, la loro vita agli studenti”. Perché, conclude Ordine, “per fortuna, nonostante leggi e circolari assurde, non mancano fino ad oggi allievi che hanno visto cambiare la loro vita grazie all’incontro con un professore”.
Quanti insegnanti sono d’accordo con questa tesi? È probabile che siano molti, forse tutti. E anche i sindacati: per il momento abbiamo raccolto l’apprezzamento della Cisl Scuola Lazio, che parla di articolo di buona fattura, a differenza di quello a seguire di Angelo Panebianco, sempre pubblicato sul Corriere della Sera (definito “generico e un tantino qualunquista”).
Viene da chiedersi per quale motivo chi gestisce l’istruzione pubblica non adotti una politica di questo genere, per dare piena dignità alla professione, anziché scegliere strade impervie che conducono verso il rifiuto ad applicarle e, quindi, al risultato opposto.
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