Secondo il Randstad workmonitor, solo un terzo dei lavoratori ha avuto bonus o aumenti negli ultimi 6 mesi. Il 72% sceglie di muoversi in modo proattivo: il 24% aumenta le ore, il 20% valuta un secondo impiego, il 14% posticipa il pensionamento, mentre il 14% sceglie lo smart working
Gli ultimi dati Istat spiegano che non si può ancora parlare di assestamento della dinamica inflattiva, anche se i mesi scorsi hanno dato segnali di attenuazione. In gennaio si è infatti osservato un nuovo rimbalzo. In tutti i casi, la fiammata non è stata assorbita sul piano reale, soprattutto da chi ha stipendi più bassi, perché dagli aumenti dei prezzi dei mesi passati non si è tornati indietro. Questo ha costretto le persone a cambiare abitudini sia nella vita che al lavoro e a trovare piccole strategie “fai da te” per combattere il carovita. Ritardare l’uscita dal lavoro, cercare di fare straordinari, trovare un secondo lavoro sono tra quelle emerse dagli ultimi dati del focus sull’impatto dell’inflazione e sull’evoluzione del lavoro agile del Randstad workmonitor. Per realizzarlo Randstad ha intervistato 764 persone in Italia tra i 18 e i 67 anni (e circa 26.800 a livello globale)
L’impennata dei prezzi e la reazione dei lavoratori
Il 72% dei lavoratori che sono stati intervistati da Randstad si sta muovendo in modo proattivo. Quattro su 10 dicono di aver ricevuto supporto dalle proprie aziende, un terzo ha avuto un aumento di stipendio o bonus negli ultimi sei mesi, mentre solo il 23% ha ricevuto più misure di sostegno per le famiglie, come assistenza all’infanzia o congedi parentali.
Le strategie dei lavoratori
Per fare fronte alle conseguenze del carovita i lavoratori hanno messo in atto diverse strategie: il 24% ha intenzione di aumentare o ha già aumentato le ore di lavoro, quasi il 20% sta valutando un secondo lavoro, il 14% pensa di posticipare l’uscita per pensionamento. Ma c’è anche un 14% che ha incrementato lo smart working per ridurre i costi di spostamento. Il 20% degli italiani oggi lavora prevalentemente da casa, il 31% non lo fa ma la riterrebbe la soluzione migliore, secondo quanto spiega la ricerca. Sullo smart working, però, nelle imprese c’è una tendenza ad un maggiore equilibrio e a prevedere l’alternanza tra presenza in sede e lavoro da remoto.
Nuovo equilibrio per lo smart working
Per molti, la possibilità di scegliere o meno il lavoro agile non è più così scontata: il 38% afferma che la propria azienda non offre sufficiente flessibilità per lo smart working, e nel 34% dei casi i datori di lavoro richiedono la presenza in ufficio con maggiore costanza. Sullo smart working ci sono però pro e contro. Se il 14% degli intervistati sfrutta maggiormente il lavoro da casa per evitare il costo degli spostamenti, il 10% si reca in ufficio per risparmiare quelli energetici. Rispetto al 2022, secondo la ricerca di Randstad c’è anche meno flessibilità in termini di orario di lavoro, secondo quanto dice il 26% degli intervistati. Valentina Sangiorgi, chief hr officer di Randstad, interpreta questi dati spiegando che nei lavoratori «c’è una maggiore consapevolezza di ciò a cui ambiscono nella loro vita professionale e sono sempre più attenti alla ricerca di un’occupazione che sia per loro sostenibile, sia dal punto di vista economico che organizzativo».
La flessibilità
In questo contesto, la possibilità di poter gestire con più flessibilità il lavoro è particolarmente apprezzata: se lavorare in ufficio è la soluzione preferita, non lo è più come in passato 5 giorni su 5. Lo farebbe meno di un terzo dei lavoratori (il 29%), mentre il 41% vorrebbe un lavoro ibrido equamente distribuito tra casa e sede di lavoro.
Il rimbalzo dell’inflazione di gennaio
Le scelte dei lavoratori hanno una loro spiegazione sociale, che si trova nel desiderio di poter avere più flessibilità e autonomia nel gestire il lavoro, in modo da poter meglio conciliare tutte le esigenze, sia professionali, sia personali. Ma anche nel fatto che per mantenere il proprio stile di vita servono sempre più risorse economiche, soprattutto per la soglia dei prezzi che si mantiene su un livello molto alto da cui non si sta tornando indietro: dall’immobiliare fino all’alimentare. In gennaio, come spiegano i dati Istat, c’è stato un lieve rimbalzo: l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività (NIC), al lordo dei tabacchi, ha infatti registrato un aumento dello 0,3% su base mensile e di 0,8% su base annua (confermando la stima preliminare), da +0,6% nel mese precedente. La moderata accelerazione del ritmo di crescita dei prezzi riflette l’andamento dei prezzi dei beni energetici regolamentati, la cui flessione su base tendenziale in gennaio è attenuata per l’effetto statistico dovuto allo sfavorevole confronto con gennaio 2023. Il contributo alla risalita dell’inflazione si deve soprattutto alle tensioni sui prezzi dei beni alimentari non lavorati, mentre il cosiddetto “carrello della spesa” continua adecelerare (+5,1%).
Le generazioni
La reazione cambia molto a seconda della generazione considerata, delle prospettive salariali e degli impegni economici. In tutti i casi ad adottare un atteggiamento proattivo è la maggior parte dei lavoratori, due su tre. Ai primi posti c’è la Generazione Z (89%) e i Millennials (84%), seguiti da Gen-X e Boomers (73% e 61%).Oltre a straordinari, secondo lavoro, posticipo della pensione, emerge anche che l’ipotesi di licenziarsi per trovare una posizione più remunerativa: ci pensa il 13% dei lavoratori, in particolar modo tra la Gen-Z (26%) e i Millennials (22%), mentre l’11% preferisce rimandare eventuali cambiamenti ad un momento più stabile.