A seguito della presentazione della Nadef si è acceso un dibattito su presunti “tagli” alla spesa sanitaria per 2 miliardi. Tecnicamente nella Nadef ci si limita a riportare una proiezione tendenziale a legislazione vigente. Non parliamo quindi di una programmazione della spesa sanitaria che verrà rivista – con tutta probabilità a rialzo – nella prossima manovra. E parlare di impatto della spesa sul Pil ha poco senso. Con ogni probabilità ci saranno incrementi non sufficienti per rilanciare il Ssn, ma nessun “taglio” sulla sanità
In questi giorni si è accesso un ampio dibattito sui presunti tagli alla sanità effettuati dal governo Meloni. Tutto nasce dalla nota di aggiornamento al documento di economia e finanza, dove la spesa sanitaria passa dai 134,7 miliardi nel 2023 a 132,9 miliardi nel 2024, con un passaggio della spesa sanitaria dal 6,6 al 6,2% in rapporto al Pil.
È sufficiente questo dato per parlare di “tagli” alla sanità? La risposta è no. Tecnicamente nella Nadef ci si limita a riportare una proiezione tendenziale a legislazione vigente. Non parliamo quindi di una programmazione della spesa sanitaria che verrà rivista – con tutta probabilità a rialzo alla luce delle recenti dichiarazioni di esponenti di spicco del governo – nella prossima legge di Bilancio. Sempre nella nota di aggiornamento è stata infatti ricavata una di circa 14 miliardi di spazio fiscale da destinare in manovra al raggiungimento di diversi obiettivi. Tra questi ci sarà anche l’incremento della spesa sanitaria.
Arriveranno i 4 miliardi chiesti dal ministro della Salute Orazio Schillaci? Quasi certamente no. Con ogni probabilità, oltre ai 2 miliardi di aumento del fondo sanitario già previsti dalla precedente legge di Bilancio, si riuscirà a destinare al settore circa altri 1,5-2 miliardi aggiuntivi nella prossima manovra. Saranno sufficienti? No, e di certo non si tratta di una cifra tale da riuscire a far riallineare la spesa sanitaria italiana con la media dei Paesi Ocse. Allo stesso modo, però, è tecnicamente scorretto parlare di un “taglio” alla sanità.
Ancora meno sensato è parlare di spesa sanitaria soffermandosi unicamente sul suo impatto sul Pil. Del resto immaginare di agganciare ad una soglia rigida di Pil la qualità e l’accesso alle cure sanitarie è un non senso, in quanto una percentuale di incidenza sul Pil può essere solo un parametro di confronto tra Paesi con economie e sistemi sanitari paragonabili. Per cogliere effettivamente il ‘peso’ dell’intervento pubblico nella tutela della salute, resta valido unicamente un confronto tra le quote di finanziamento a parità di potere d’acquisto. Queste sì, effettivamente, vedono l’Italia in una posizione molto arretrata rispetto a Paesi come Francia e Germania.
Il Pil, infatti, non è un’entità statica. Esso può crescere e scendere e questo ha ovvie ricadute sui pesi percentuali delle sue diverse componenti. Se il Pil cresce e la spesa sanitaria poniamo, resti al 6,6%, avremo in realtà più risorse di prima a parità di incidenza di Pil, come, al contrario, se il Pil scendesse e la quota di spesa sanitaria restasse sempre al 6,6%, in realtà avremo meno risorse di prima. Quando si parla di una spesa sanitaria sul Pil che negli anni della pandemia aveva superato la soglia del 7%, andrebbe al contempo spiegato come questo effetto sia dovuto in parte sicuramente al forte incremento della spesa dettato dall’emergenza, ma dall’altro anche – se non soprattutto – dal crollo del Pil causato proprio dal forte impatto che ebbero sull’economia i lockdown e le restrizioni.
Dunque, per mantenere il dibattito pubblico sui binari della serietà sarebbe più corretto dire che con ogni probabilità in manovra ci saranno incrementi non sufficienti per far fronte alla grave crisi che da tempo affligge il Servizio sanitario nazionale, ma che al contempo non ci saranno “tagli” alla spesa sanitaria.
Giovanni Rodriquez
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