Il lavoro agile è già scomparso dai piani del governo anche se le statistiche suggerirebbero di adottarlo in diverse forme. Il Paese rischia di sprecare una grande opportunità di modernizzare il proprio sistema produttivo
C’è un tema su cui la mancanza totale di una discussione, tanto a livello politico quanto culturale, rischia di far perdere all’Italia una grande occasione per innovare il suo sistema produttivo, rendendolo più attrattivo e competitivo: il lavoro agile.
Il 30 giugno, infatti, scadrà il diritto al lavoro agile ancora previsto per alcune categorie di lavoratori “fragili”, residuo della pandemia. Dopo, nulla impedirà un totale ritorno in ufficio. Eppure, nel dibattito del Paese e dell’azione del governo il lavoro agile (comunemente chiamato smart working) è quasi del tutto scomparso, relegato a poche nicchie di settore o a illuminati esempi di manager che hanno intravisto il futuro lì dove molti hanno visto solo la perdita di controllo sui dipendenti.
Secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano i lavoratori da remoto erano oltre quattro milioni nel 2021, ma sono scesi a circa tre milioni e mezzo nel 2022. L’Osservatorio stima un lieve aumento nel 2023, ma il movimento complessivo sembra dunque essere quello di un ritorno in presenza, se usiamo come termine di confronto il periodo della pandemia. Secondo Istat, in due anni siamo passati dal venti per cento di imprese che utilizzavano lo smart working al sei per cento attuale.
Tuttavia, occorre guardare più nel dettaglio i dati per notare una dinamica sostanziale. L’Osservatorio del Politecnico, nel suo report “Il futuro del lavoro al bivio”, fa notare come la diminuzione dei numeri totali sia da imputare al ritorno in presenza che avviene nelle piccole e medie imprese, mentre il ricorso al lavoro agile nel periodo 2021-2023 aumenta per le realtà più grandi. Una tendenza confermata dai dati Istat 2022: lo smart working è utilizzato solo dal 4,4 per cento delle micro-imprese e dal 10,9 per cento delle piccole, mentre la quota sale al 31,4 per cento per le medie e al 61,6 per cento per le grandi. Inoltre, è più diffuso nei settori innovativi e ad alto valore aggiunto.
Se, quindi, per molte imprese medio-piccole il lavoro da remoto è stata una parentesi dalla quale liberarsi appena possibile, per le aziende più grandi e innovative è ormai diventato la norma. L’immagine che si va delineando è quella di una cesura interna al tessuto produttivo, con le realtà più grandi, dinamiche e competitive che implementano con successo nuove forme di lavoro, e quelle più piccole e tradizionali che non sperimentano nuovi modelli.
In questo modo, la faglia è destinata ad allargarsi. Sviluppare nuovi modelli significa aumentare la produttività (con effetti sui salari), e in questo il lavoro agile ha dimostrato di poter svolgere un ruolo. Già in pandemia, l’Istat ha calcolato l’aumento della produttività in 1,3 punti percentuali in media a livello nazionale (contro lo 0,5 annuale), mentre l’ufficio studi di Variazioni, realtà specializzata nelle trasformazioni dei luoghi di lavoro, ha stimato che il sessantasei per cento delle aziende ha visto aumentare la produttività negli ultimi tre anni grazie al ricordo al lavoro da remoto, che ha inciso anche sulla diminuzione delle assenze.
Anche l’attrattività delle imprese è influenzata dal ricorso al lavoro agile. Vista la possibilità di conciliare meglio vita e lavoro, diversi studi (come i dati dell’Osservatorio del Politecnico) mostrano in media un maggior benessere psico-fisico, oltre che un maggior senza di appartenenza all’azienda, nei lavoratori di aziende che hanno implementato il lavoro agile. Il risultato è che le realtà che si ostinano a preferire la presenza possono avere molti più problemi a trovare i profili migliori sul mercato. Un’indagine della Banca Centrale Europea ha rivelato come le persone tendano a cambiare più facilmente lavoro se percepiscono che le loro preferenze in materia di lavoro agile sono più sviluppate di quelle dei superiori, mentre secondo FlexJobs il sessantatré per cento dei lavoratori italiani lascerebbe il proprio posto a fronte di una riduzione del lavoro da remoto.
Non siamo di fronte a un semplice cambiamento del luogo fisico di lavoro: il lavoro agile, o smart working, non serve solo a risparmiare il tragitto casa-ufficio o a far fronte a situazioni emergenziali, ma è un ripensamento globale delle modalità lavorative, tanto sul fronte organizzativo quanto valutativo. Il solo home office, sperimentato durante la pandemia, non basta a creare un vero cambiamento se non inserito in una cornice più ampia di flessibilità e revisione dei processi.
Sono le aziende, in primis, a poter beneficiare di un’innovazione dei metodi di lavoro, ma spesso nelle realtà più piccole prevalgono resistenze culturali legate a una mentalità conservatrice e familistica tipicamente italiana, con l’attitudine al controllo che spinge a non vedere di buon occhio un modello che si basa, prima di tutto, su una diversa responsabilizzazione delle persone in azienda e su una nuova modalità di valutazione delle loro prestazioni.
Vi sono poi una serie di effetti positivi indiretti, come il minor costo per le imprese (dato dalla riorganizzazione e in molti casi riduzione degli spazi) e un minor impatto ambientale. Enea, ad esempio, ha stimato la riduzione del quaranta per cento di emissioni e ottantacinque Megajoule di benzina in meno, pro capite, all’anno in uno scenario di lavoro agile generalizzato.
Il lavoro da remoto, quindi, è un grande tema di innovazione e produttività. In un tessuto come quello italiano, dominato da Pmi dove spesso l’innovazione fatica a essere percepita come una risorsa competitiva, la diffusione di nuovi modelli rischia però di essere più lenta (e di incontrare più nemici) di quanto avvenga altrove. Il rischio è che accanto a poche grandi realtà virtuose, produttive e in grado di attrarre i talenti, si consolidi una miriade di piccole realtà a basso valore aggiunto, restie a un’innovazione che nel resto d’Europa e in Nord America sta consolidandosi come un nuovo standard.
Al di là della data del 30 giugno, dunque, il tema è strategico per il futuro del Paese e del suo sistema produttivo. L’assenza di un dibattito sul tema, così come la mancanza nella maggioranza di una discussione sull’aggiornamento della normativa in materia e su come favorire la diffusione del lavoro agile, tradisce da parte del governo una totale incomprensione della questione.
Un’incomprensione che fa perdere al Paese produttività e competitività, esponendolo inoltre ancora di più (anche a causa dei salari medi) alla concorrenza estera, soprattutto in un futuro in cui un’armonizzazione fiscale a livello Ue dovesse permettere di vivere stabilmente in uno Stato membro lavorando per un’azienda con sede in un altro.
Sul lavoro agile si gioca una partita decisiva per il futuro del tessuto produttivo italiano. La scelta, oggi, non è se permettere un cambiamento che si verificherà in ogni caso, ma semplicemente se governarlo o subirlo. E stiamo scegliendo la seconda opzione, sprecando un’occasione di innovazione che, negli anni, scaverà un solco tra aziende moderne e aziende ferme al passato, esponendo ancora di più il Paese a un corporativismo che, nei decenni, ha disinnescato il potenziale di ogni vero cambiamento strutturale.
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